martedì 9 dicembre 2025

Sabato sera su Andromeda

N
el 1947, due ragazzi alieni in fuga da casa precipitano nel deserto del Nuovo Messico, dando origine al celebre incidente di Roswell. Tra rottami terrestri, giocattoli volanti e genitori intergalattici infuriati, si scopre che anche nell’universo più lontano i guai del sabato sera sono sempre gli stessi.

Come spesso accade nelle storie che finiscono nei libri di storia, tutto cominciò per un capriccio. Due ragazzi scappati di casa – provenienza: la costellazione della Lira, pianeta secondario d’Andromeda – avevano deciso di rubare l’astronave di famiglia per concedersi un giro galattico. Una bravata, direbbero i padri di ogni sistema solare, ma che quella notte del 1947 si trasformò, per le cronache terrestri, nel famoso “incidente di Roswell”.

La loro era una fuga di sabato sera, la più classica delle fughe giovanili. Avevano acceso i motori con l’entusiasmo di chi non teme la manutenzione e si erano diretti verso una piccola orbita di libertà. La nave, però, non era in perfetta salute: mancava il cambio dell’olio cosmico, dettaglio che a loro sembrava trascurabile ma che, nel linguaggio interstellare, equivale a partire per il deserto con una gomma a terra. L’elemento 115, quel materiale un po’ instabile che il celebre meccanico Bob Lazard avrebbe poi descritto con serietà scientifica, iniziò a vibrare, a tossire e infine a fare quello che tutti i giovani ribelli fanno alla prima occasione: crollò rovinosamente.

Il cielo sopra il Nuovo Messico s’illuminò di una luce verdognola, e un oggetto non identificato venne giù come un petardo capodannizio dimenticato dal calendario. Bill — nome inventato, ma contadino autentico — sentì il boato mentre contava le sue galline e pensò, con la filosofia spiccia degli uomini del deserto, che qualcosa di grosso e non assicurato fosse appena atterrato nel suo campo. Si avvicinò e trovò una scena che non avrebbe saputo raccontare nemmeno dopo tre bicchieri di whisky: l’astronave, piegata su un fianco, fumava come una locomotiva stanca; accanto, due figure minuscole, lucide, quasi adolescenti del cosmo, sembravano intente a discutere sulla colpa del disastro.

Non erano né mostri né angeli, ma due ragazzi che avevano perso l’orientamento e la pazienza. Uno gesticolava come un pilota che accusa il navigatore, l’altra scuoteva il capo con la fermezza di chi sa che il “te l’avevo detto” è universale. Erano salvi, ma la loro reputazione galattica, se mai ne avevano avuta una, era finita in fumo.

Il Pentagono, che in quegli anni viveva d’allarmi e segreti, accorse sul posto. Generali, guardie federali, tecnici, tutti a raccogliere resti e prove come bambini in gita scolastica. Ma i reperti non avevano nulla di straordinario. Il vento, quella settimana, aveva fatto il suo dovere: un piccolo tornado nella vicina cittadina di Corona aveva sollevato in aria l’intero inventario del negozio di giocattoli locale. Così i militari trovarono nel campo rottami di ogni genere — pezzi di tende volanti, dischi di latta, pupazzi strambi e rumorosi — e li catalogarono con l’entusiasmo di chi non sa di star archiviando un errore.

Si disse che tra i resti vi fossero due piccoli corpi, “creature extraterrestri”, ma in verità erano soltanto i giocattoli preferiti dei due giovani andromediani: pupazzi di compagnia, con cui avevano l’abitudine di addormentarsi durante le lunghe trasferte intergalattiche. Avevano portato anche la loro bevanda rituale — un liquore verdastro, tecnicamente analcolico, estratto da certe piante che su Andromeda sanno far ballare anche le rocce — e un impianto sonoro per la loro musica rap in versione cosmica, la colonna sonora della loro ribellione.

Le autorità, incapaci di distinguere un residuo di infanzia da un manufatto alieno, dichiararono tutto “top secret”. Il colonnello di turno firmò un rapporto e ordinò il silenzio. I giornali, come al solito, fecero il contrario: pubblicarono ogni possibile versione, dall’invasione imminente alla resurrezione di Atlantide. Nel giro di pochi giorni, il deserto di Roswell, che fino a quel momento era stato solo un posto dove la sabbia litigava col vento, divenne una meta turistica. Gli uomini vennero per cercare prove, e trovarono souvenir.

Nel frattempo, i due giovani interstellari avevano già fatto i conti con la realtà domestica. La notizia della loro scomparsa aveva raggiunto i genitori, e su Lyra-7 la cosa fu considerata uno scandalo: due ragazzi che rubano l’astronave di famiglia per andare a bere succo di clorofilla su un pianeta minore! Il padre di lei, un funzionario dell’Amministrazione Cosmica, giurò che “li avrebbe ripresi anche a piedi”. In effetti, li riprese davvero, ma non senza pedagogia: li costrinse a una lunga marcia spaziale fino al punto di recupero, una “scarpinata educativa” che attraversava qualche migliaio di chilometri di polvere stellare e di rimorsi. Non voleva farsi vedere atterrare sulla Terra davanti agli sguardi indiscreti dei terrestri — che, come si sa, osservano tutto con l’avidità dei bambini davanti a un dolce.

Quando la nave dei genitori li intercettò, il cielo del Nuovo Messico si tinse di verde. Nessuno vide realmente nulla, ma molti dissero di sì, come sempre accade quando la realtà si traveste da leggenda. Si racconta che i due ragazzi furono rimproverati severamente, che la madre pianse, e che il padre li obbligò a riprogrammare il navigatore, dando le coordinate con la precisione di un vecchio GPS cosmico. In quel gesto, più che nella punizione, stava l’intera saggezza delle stelle: imparare la rotta non basta, bisogna anche saper tornare.

La faccenda per gli umani finì lì, o almeno così parve. Gli scienziati non trovarono prove convincenti, i giornali continuarono a inventarne, e il turismo desertico ringraziò. Qualche decennio dopo, Roswell viveva di magliette, calamite e birre chiamate “UFO Ale”. Ogni anno, a luglio, la gente si radunava a guardare il cielo, aspettando un nuovo lampo verde che non arrivava mai. Bill, il contadino testimone, si limitava a sorridere: sapeva bene che ciò che era caduto in quel campo non era un mistero dell’universo, ma una pagina di diario di famiglia galattica, scritta da due ragazzi con troppa curiosità e poca manutenzione.

Eppure, in certe notti, giurava di sentire ancora un ronzio lontano e una risata metallica che scivolava fra le stelle. Forse era solo il vento del deserto, o forse era Lira che canzonava Zog per l’ennesima distrazione. L’universo, dopotutto, non cambia mai davvero: cambia soltanto il carburante dei suoi adolescenti.

Così terminò il grande incidente di Roswell, nato da un banale problema di tagliando e cresciuto fino a diventare la più celebre leggenda del ventesimo secolo. E se c’è una morale in tutto questo è che gli extraterrestri, quelli veri, non ci stupiscono più di tanto: rubano astronavi, litigano, bevono cose verdastre, ascoltano pessima musica e fanno infuriare i genitori. In fondo, l’universo intero è solo una grande famiglia, con le stesse incomprensioni e lo stesso, irresistibile bisogno di uscire il sabato sera.

© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata

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