mercoledì 17 dicembre 2025

Amare senza l’altro: il gelo del desiderio in Queer

I
n Queer, Luca Guadagnino affronta una sfida che va ben oltre la rappresentazione dell’omosessualità o l’adattamento di un testo letterario di culto. Il film non chiede allo spettatore di riconoscersi, né di empatizzare; chiede piuttosto di attraversare un territorio instabile, in cui il desiderio smette di essere racconto e diventa forza impersonale, centrifuga, potenzialmente distruttiva. È qui che si colloca il vero problema critico dell’opera: come rappresentare il desiderio quando esso non fonda più l’identità, ma la consuma.

La tematica omosessuale, dichiarata e priva di ambiguità, non è che il livello più immediato del discorso. Guadagnino sembra consapevole che, nel panorama contemporaneo, l’omosessualità non costituisce più di per sé un gesto perturbante. Per questo Queer sposta il conflitto su un piano più radicale: non chi desidera, ma che cosa fa il desiderio a chi lo attraversa. Il film non racconta un amore, bensì una progressiva perdita di consistenza del soggetto che ama.

Da questo punto di vista, Queer si colloca in una tradizione post-identitaria, in cui il desiderio non costruisce comunità né produce un racconto di sé. È una forza antisociale, che non cerca integrazione ma eccedenza. Guadagnino assume questa prospettiva senza addomesticarla: il suo film non cerca equilibrio, insiste sull’asimmetria, sull’eccesso, sulla deriva.

Il viaggio in Amazzonia rappresenta il cuore concettuale del film. Non uno spazio di scoperta, ma una zona di sospensione delle categorie occidentali: identità, linguaggio, volontà. Qui appare la droga che promette la telepatia, elemento che ha diviso la critica. Non è un espediente narrativo, bensì una provocazione ontologica: che cosa resta del desiderio quando non ha più bisogno del corpo né della parola?

La telepatia non estende l’intimità, la abolisce. Se l’altro può essere conosciuto senza mediazione, l’altro smette di esistere come alterità. Il film suggerisce, con inquietante freddezza, che il massimo grado di fusione coincida con una forma di annientamento. Non c’è più relazione, ma sovrapposizione; non più desiderio, ma consumo mentale dell’altro.

In questo senso Queer dialoga con una tradizione cinematografica che va da Cronenberg a Herzog. Come in Aguirre o Fitzcarraldo, l’Amazzonia non è uno spazio da conquistare, ma una forza che disgrega. Tuttavia, laddove Herzog metteva in scena il delirio della volontà, Guadagnino mostra il collasso del desiderio stesso, privato di qualsiasi funzione narrativa o morale.

Il confronto con il romanzo omonimo di William S. Burroughs chiarisce ulteriormente la posta in gioco. Nel libro, scritto negli anni Cinquanta ma pubblicato solo nel 1985, il desiderio è ancora intriso di colpa, dipendenza, umiliazione. La scrittura funziona come tentativo di controllo, come confessione deformata. Nel film, invece, il linguaggio fallisce: il soggetto non cerca più redenzione, ma scompare.

Guadagnino non adatta Burroughs: lo muta. Trasforma un dramma psicologico in un problema ontologico. Se Burroughs mostrava un desiderio che umilia il soggetto, il film mostra un desiderio che lo rende superfluo. Non chiede più “chi desidera?”, ma “che cosa resta quando il desiderio non ha più bisogno di un io?”.

Il risultato è un’opera volutamente scomoda, che rifiuta tanto la celebrazione quanto la condanna. Queer non offre identificazione né catarsi. Espone il desiderio come esperienza estrema, forse improduttiva, forse disumana. E nel farlo solleva una domanda che resta aperta: un desiderio senza corpo e senza alterità è ancora desiderio, o è già una forma di annientamento?

© Riproduzione riservata - Daniel Crusoe

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