C’era una volta il West: quando il cinema diventa memoria
1. Il requiem del western: la dissoluzione del mito
Nel 1968, con C’era una volta il West, Sergio Leone
firma la sua opera più alta, la più complessa e probabilmente la più
malinconica. È un film che non si limita a raccontare l’Ovest, ma lo compiange,
lo osserva con la distanza di chi sa che quel mondo sta per svanire. Se la
“trilogia del dollaro” aveva costruito un nuovo mito del western, Leone qui ne
mette in scena il funerale. Non più l’eroe solitario, cinico e anarchico, ma
figure stanche, segnate dal tempo, che attraversano un paesaggio già
contaminato dal futuro. La frontiera non è più promessa, ma rimpianto.
Con l’aiuto di Bernardo Bertolucci e Dario Argento alla
sceneggiatura, Leone plasma una narrazione corale e solenne, che si apre con
una delle sequenze più celebri e radicali della storia del cinema: dieci minuti
di silenzio quasi assoluto, interrotti solo da suoni ambientali – un cigolio,
una mosca, il vento – mentre tre uomini attendono un treno. Nulla accade,
eppure tutto si compie: il tempo si dilata fino a diventare dramma, la suspense
non nasce dall’azione ma dall’attesa stessa. Quando il treno arriva, porta con
sé non solo il protagonista Armonica, ma l’intero destino di un’epoca che sta
per finire.
Il West che Leone mette in scena è già un reperto, un
paesaggio mitico in via di dissoluzione. Il progresso – impersonato dalla
ferrovia, dai capitalisti senza scrupoli, dalla logica del profitto – avanza
inesorabile e inarrestabile. Il sogno americano si decompone sotto i colpi del
realismo storico. I vecchi codici d’onore si sbriciolano di fronte a una
modernità impersonale, violenta, silenziosamente crudele. Il western classico
celebrava l’espansione; C’era una volta il West ne mostra il prezzo: il
sacrificio del tempo, del silenzio, della leggenda.
2. Jill McBain, l’epifania della civiltà
In questo universo in decadenza, Leone compie una scelta
radicale: pone al centro della storia una donna. Una donna che non è solo
testimone del cambiamento, ma suo agente, sua incarnazione, sua promessa. Jill
McBain, interpretata da Claudia Cardinale, irrompe nella narrazione con la
forza di un’apparizione. Il suo viaggio in treno non è solo geografico, ma
simbolico: è l’ingresso della civiltà nella terra del mito. Il suo sguardo,
ampio, curioso, disilluso, si posa su un mondo dominato dalla violenza maschile
e ne decreta la fine.
La presenza di Jill nel film non è decorativa, né
semplicemente narrativa: è semantica. È lei a ereditare la terra, a negoziare
con i banditi, a offrire acqua agli operai che costruiscono la ferrovia. Non è
più la “donna da salvare” dei western classici, ma colei che salva, che
resiste, che sopravvive. Nei suoi gesti, lenti, misurati, spesso silenziosi,
Leone deposita il senso profondo della sua visione: non sono i colpi di pistola
a costruire la storia, ma la pazienza, la capacità di restare, la volontà di
ricominciare.
Leone filma Claudia Cardinale con una reverenza che sfiora
il sacro. Ogni suo movimento è seguito da inquadrature lente, solenni, che ne
esaltano la corporeità e la spiritualità insieme. Jill non è un personaggio: è
un’idea. È la civiltà che arriva in ritardo, ma inesorabile. È l’Europa che
guarda l’America e la interpreta. È la madre, la vedova, la pioniera, la
regina. La sua resistenza non è eroica in senso classico, ma profonda,
necessaria, generativa. In un mondo dove gli uomini si uccidono, è lei a costruire.
E quando alla fine del film offre acqua ai lavoratori, il gesto assume la forma
di un rito fondativo: non c’è più spazio per i pistoleri, ma c’è ancora
speranza per gli esseri umani.
3. Gli uomini che svaniscono: Armonica, Cheyenne, Frank
Nel teatro tragico orchestrato da Leone, gli uomini sono
ombre che si muovono tra la nostalgia e il crepuscolo. Armonica (Charles
Bronson) è il più enigmatico: un vendicatore silenzioso, un uomo senza nome e
senza tempo, sospeso tra passato e presente. Il suo strumento – quella armonica
dal suono metallico e luttuoso – è più eloquente delle parole: è la voce di un
trauma che si ripete, la musica di una vendetta che si compie. Il suo volto
impassibile, scolpito nella pietra, è quello di un’umanità ormai obsoleta.
Armonica arriva, uccide e se ne va: non lascia tracce, perché non ha futuro. È
l’ultimo cavaliere dell’Apocalisse western.
Cheyenne (Jason Robards), al contrario, è il bandito con un
cuore. Ironico, disilluso, vagamente romantico, è l’unico personaggio che
sembra ancora capace di umanità. Ma anche lui appartiene al passato. La sua
morte – quasi fuori campo, in silenzio, mentre il mondo attorno a lui continua
a costruire – è una delle più struggenti del cinema di Leone. Nessun epitaffio,
nessun saluto: solo l’oblio. Perché anche i ribelli, quando non servono più al
racconto del potere, vengono dimenticati.
Ma è Frank (Henry Fonda) a incarnare il cambiamento più
perturbante. Leone, in un gesto di geniale spiazzamento, affida il ruolo del
cattivo all’attore simbolo dell’onestà americana. Il volto angelico di Fonda, i
suoi occhi azzurri, diventano maschera del male. La sua prima apparizione –
l’omicidio di un bambino – distrugge ogni certezza dello spettatore. Frank non
è il classico villain: è il potere che si traveste da normalità. È il
capitalismo feroce, razionale, elegante. Non spara per impulso, ma per calcolo.
Ed è proprio questo a renderlo più spaventoso: perché la sua violenza non ha
pathos, ma efficienza. È la nuova legge del mondo.
Tutto in C’era una volta il West è pensato per
durare. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni nota della colonna
sonora è cesellata come se dovesse attraversare i secoli. Leone lavora sul
tempo non solo come tema narrativo, ma come materia estetica. I suoi tempi
dilatati non sono un vezzo autoriale, ma uno strumento poetico. L’attesa, la
sospensione, la reiterazione diventano dispositivi per incidere la memoria. Non
si guarda questo film: lo si contempla.
La costruzione visiva è maniacale. Il montaggio alterna
primissimi piani – volti scavati, occhi spalancati, labbra serrate – a
panoramiche ampie, che restituiscono la vastità metafisica del paesaggio. Gli
spazi non sono solo scenografia: sono drammaturgia. I volti, al contrario,
diventano paesaggi interiori. Il deserto, le rotaie, le stazioni abbandonate –
tutto contribuisce a creare una geografia simbolica del tempo che finisce.
E poi c’è la musica, firmata da Ennio Morricone, che non
accompagna le immagini, ma le precede, le anticipa, le fonda. Ogni personaggio
ha un tema: Jill ha una melodia dolce e struggente, che sa di maternità e
speranza; Armonica ha un lamento spettrale e metallico; Frank è accompagnato da
una marcia cupa, inevitabile; Cheyenne ha un motivo più leggero, quasi
folklorico. Morricone non scrive una colonna sonora: compone un’opera lirica
invisibile, dove ogni nota racconta ciò che l’immagine tace. Senza la musica,
il film non esisterebbe: ne è il respiro, il battito, la coscienza.
Alla sua uscita, il film fu accolto con freddezza negli
Stati Uniti: troppo lungo, troppo lento, troppo europeo. Ma in Europa – in
particolare in Francia – fu subito riconosciuto come capolavoro. I Cahiers
du Cinéma lo consacrarono tra i grandi, e cineasti come Truffaut, Godard,
Wenders lo citarono come fonte di ispirazione. Oggi, la sua influenza
attraversa le generazioni e i continenti: da Tarantino a Nolan, da Villeneuve a
Wong Kar-wai, tutti hanno guardato a Leone come al poeta supremo del tempo
cinematografico. E C’era una volta il West resta lì, immobile e vivo,
come un monumento che respira.
© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata
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