domenica 30 novembre 2025

C’era una volta il West: quando il cinema diventa memoria

C ’era una volta il West di Sergio Leone non è solo un film western, ma una meditazione lirica sulla fine di un’epoca. È la storia di un mondo che muore – quello dei pistoleri, dei miti maschili e della conquista – e dell’alba di una nuova civiltà che avanza, femminile e operosa. Con una regia solenne, tempi dilatati e la potenza visiva del mito, Leone compone un poema cinematografico sulla memoria, il tempo e l’irresistibile marcia del progresso.

 


1. Il requiem del western: la dissoluzione del mito

Nel 1968, con C’era una volta il West, Sergio Leone firma la sua opera più alta, la più complessa e probabilmente la più malinconica. È un film che non si limita a raccontare l’Ovest, ma lo compiange, lo osserva con la distanza di chi sa che quel mondo sta per svanire. Se la “trilogia del dollaro” aveva costruito un nuovo mito del western, Leone qui ne mette in scena il funerale. Non più l’eroe solitario, cinico e anarchico, ma figure stanche, segnate dal tempo, che attraversano un paesaggio già contaminato dal futuro. La frontiera non è più promessa, ma rimpianto.

Con l’aiuto di Bernardo Bertolucci e Dario Argento alla sceneggiatura, Leone plasma una narrazione corale e solenne, che si apre con una delle sequenze più celebri e radicali della storia del cinema: dieci minuti di silenzio quasi assoluto, interrotti solo da suoni ambientali – un cigolio, una mosca, il vento – mentre tre uomini attendono un treno. Nulla accade, eppure tutto si compie: il tempo si dilata fino a diventare dramma, la suspense non nasce dall’azione ma dall’attesa stessa. Quando il treno arriva, porta con sé non solo il protagonista Armonica, ma l’intero destino di un’epoca che sta per finire.

Il West che Leone mette in scena è già un reperto, un paesaggio mitico in via di dissoluzione. Il progresso – impersonato dalla ferrovia, dai capitalisti senza scrupoli, dalla logica del profitto – avanza inesorabile e inarrestabile. Il sogno americano si decompone sotto i colpi del realismo storico. I vecchi codici d’onore si sbriciolano di fronte a una modernità impersonale, violenta, silenziosamente crudele. Il western classico celebrava l’espansione; C’era una volta il West ne mostra il prezzo: il sacrificio del tempo, del silenzio, della leggenda.

2. Jill McBain, l’epifania della civiltà

In questo universo in decadenza, Leone compie una scelta radicale: pone al centro della storia una donna. Una donna che non è solo testimone del cambiamento, ma suo agente, sua incarnazione, sua promessa. Jill McBain, interpretata da Claudia Cardinale, irrompe nella narrazione con la forza di un’apparizione. Il suo viaggio in treno non è solo geografico, ma simbolico: è l’ingresso della civiltà nella terra del mito. Il suo sguardo, ampio, curioso, disilluso, si posa su un mondo dominato dalla violenza maschile e ne decreta la fine.

La presenza di Jill nel film non è decorativa, né semplicemente narrativa: è semantica. È lei a ereditare la terra, a negoziare con i banditi, a offrire acqua agli operai che costruiscono la ferrovia. Non è più la “donna da salvare” dei western classici, ma colei che salva, che resiste, che sopravvive. Nei suoi gesti, lenti, misurati, spesso silenziosi, Leone deposita il senso profondo della sua visione: non sono i colpi di pistola a costruire la storia, ma la pazienza, la capacità di restare, la volontà di ricominciare.

Leone filma Claudia Cardinale con una reverenza che sfiora il sacro. Ogni suo movimento è seguito da inquadrature lente, solenni, che ne esaltano la corporeità e la spiritualità insieme. Jill non è un personaggio: è un’idea. È la civiltà che arriva in ritardo, ma inesorabile. È l’Europa che guarda l’America e la interpreta. È la madre, la vedova, la pioniera, la regina. La sua resistenza non è eroica in senso classico, ma profonda, necessaria, generativa. In un mondo dove gli uomini si uccidono, è lei a costruire. E quando alla fine del film offre acqua ai lavoratori, il gesto assume la forma di un rito fondativo: non c’è più spazio per i pistoleri, ma c’è ancora speranza per gli esseri umani.

3. Gli uomini che svaniscono: Armonica, Cheyenne, Frank

Nel teatro tragico orchestrato da Leone, gli uomini sono ombre che si muovono tra la nostalgia e il crepuscolo. Armonica (Charles Bronson) è il più enigmatico: un vendicatore silenzioso, un uomo senza nome e senza tempo, sospeso tra passato e presente. Il suo strumento – quella armonica dal suono metallico e luttuoso – è più eloquente delle parole: è la voce di un trauma che si ripete, la musica di una vendetta che si compie. Il suo volto impassibile, scolpito nella pietra, è quello di un’umanità ormai obsoleta. Armonica arriva, uccide e se ne va: non lascia tracce, perché non ha futuro. È l’ultimo cavaliere dell’Apocalisse western.

Cheyenne (Jason Robards), al contrario, è il bandito con un cuore. Ironico, disilluso, vagamente romantico, è l’unico personaggio che sembra ancora capace di umanità. Ma anche lui appartiene al passato. La sua morte – quasi fuori campo, in silenzio, mentre il mondo attorno a lui continua a costruire – è una delle più struggenti del cinema di Leone. Nessun epitaffio, nessun saluto: solo l’oblio. Perché anche i ribelli, quando non servono più al racconto del potere, vengono dimenticati.

Ma è Frank (Henry Fonda) a incarnare il cambiamento più perturbante. Leone, in un gesto di geniale spiazzamento, affida il ruolo del cattivo all’attore simbolo dell’onestà americana. Il volto angelico di Fonda, i suoi occhi azzurri, diventano maschera del male. La sua prima apparizione – l’omicidio di un bambino – distrugge ogni certezza dello spettatore. Frank non è il classico villain: è il potere che si traveste da normalità. È il capitalismo feroce, razionale, elegante. Non spara per impulso, ma per calcolo. Ed è proprio questo a renderlo più spaventoso: perché la sua violenza non ha pathos, ma efficienza. È la nuova legge del mondo.

 4. Cinema, memoria, eternità: la lezione visiva di Leone

Tutto in C’era una volta il West è pensato per durare. Ogni inquadratura, ogni movimento di macchina, ogni nota della colonna sonora è cesellata come se dovesse attraversare i secoli. Leone lavora sul tempo non solo come tema narrativo, ma come materia estetica. I suoi tempi dilatati non sono un vezzo autoriale, ma uno strumento poetico. L’attesa, la sospensione, la reiterazione diventano dispositivi per incidere la memoria. Non si guarda questo film: lo si contempla.

La costruzione visiva è maniacale. Il montaggio alterna primissimi piani – volti scavati, occhi spalancati, labbra serrate – a panoramiche ampie, che restituiscono la vastità metafisica del paesaggio. Gli spazi non sono solo scenografia: sono drammaturgia. I volti, al contrario, diventano paesaggi interiori. Il deserto, le rotaie, le stazioni abbandonate – tutto contribuisce a creare una geografia simbolica del tempo che finisce.

E poi c’è la musica, firmata da Ennio Morricone, che non accompagna le immagini, ma le precede, le anticipa, le fonda. Ogni personaggio ha un tema: Jill ha una melodia dolce e struggente, che sa di maternità e speranza; Armonica ha un lamento spettrale e metallico; Frank è accompagnato da una marcia cupa, inevitabile; Cheyenne ha un motivo più leggero, quasi folklorico. Morricone non scrive una colonna sonora: compone un’opera lirica invisibile, dove ogni nota racconta ciò che l’immagine tace. Senza la musica, il film non esisterebbe: ne è il respiro, il battito, la coscienza.

Alla sua uscita, il film fu accolto con freddezza negli Stati Uniti: troppo lungo, troppo lento, troppo europeo. Ma in Europa – in particolare in Francia – fu subito riconosciuto come capolavoro. I Cahiers du Cinéma lo consacrarono tra i grandi, e cineasti come Truffaut, Godard, Wenders lo citarono come fonte di ispirazione. Oggi, la sua influenza attraversa le generazioni e i continenti: da Tarantino a Nolan, da Villeneuve a Wong Kar-wai, tutti hanno guardato a Leone come al poeta supremo del tempo cinematografico. E C’era una volta il West resta lì, immobile e vivo, come un monumento che respira.

 

© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata

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