domenica 30 novembre 2025

Il silenzio e la parola: deve lo scrittore spiegare la propria opera?

O gni scrittore, prima o poi, si trova di fronte a un dilemma antico e affascinante: deve spiegare ciò che ha scritto o lasciare che il testo parli da solo? Tra il bisogno di chiarezza e il diritto al mistero, la letteratura del Novecento ha conosciuto entrambe le strade. Da Calvino a Hemingway, da Moravia a Camus, gli autori hanno spesso oscillato tra la voglia di raccontare il senso della propria arte e la consapevolezza che ogni spiegazione è, in fondo, una semplificazione. Questo testo riflette su quel confine sottile, dove l’autore e il lettore si incontrano o si sfiorano — e dove, a volte, il silenzio dice più della parola.

 Credo che uno scrittore possa — e forse debba — parlare di sé e delle proprie storie. Ma fino a che punto? Fino a dove può spingersi nel voler spiegare ciò che ha scritto, senza togliere al lettore la libertà di immaginare, di interpretare, di sentire? È una domanda che attraversa tutta la storia della letteratura moderna, e che continua a non avere una risposta definitiva.

Da una parte c’è il desiderio dell’autore di essere compreso, di non vedere travisato il senso profondo di un libro. Dall’altra, c’è la bellezza del mistero, l’autonomia dell’opera, quella magia per cui le parole, una volta scritte, non appartengono più a chi le ha messe sulla pagina.

Molti grandi autori del Novecento si sono mossi proprio su questo confine. Italo Calvino, ad esempio, era convinto che la chiarezza fosse una forma di rispetto verso il lettore, ma sapeva anche che la vera letteratura vive di ambiguità. Nei suoi Lezioni americane lo dice con eleganza: lo scrittore non deve togliere peso al mondo, ma renderlo più leggibile, più trasparente, pur sapendo che ogni spiegazione è provvisoria. Eppure, nei suoi romanzi — da Il visconte dimezzato a Se una notte d’inverno un viaggiatore — non spiega mai fino in fondo. Mostra, allude, invita il lettore a entrare nel gioco, ma non chiude il cerchio.

Altri, invece, hanno scelto il silenzio come forma di coerenza artistica. Ernest Hemingway è uno di questi. La sua “teoria dell’iceberg” — secondo cui il testo mostra solo una piccola parte di ciò che contiene, lasciando il resto sommerso — è quasi una dichiarazione d’intenti: lo scrittore non deve spiegare, deve suggerire. Quando gli chiedevano di chiarire il significato dei suoi racconti, rispondeva che ciò che resta non detto è spesso la parte più vera. Ed è difficile dargli torto. Il vecchio e il mare, per esempio, vive di un simbolismo che Hemingway non ha mai voluto decifrare per il pubblico: ciascuno deve trovare il proprio significato nella lotta di Santiago, e in quella sua solitudine dignitosa che vale più di qualunque morale esplicita.

Sul versante francese, Albert Camus rappresenta un caso intermedio. Non si è mai sottratto alla riflessione sul proprio lavoro, ma ha sempre difeso la libertà del lettore. Ne Lo straniero, ad esempio, non c’è una spiegazione univoca del comportamento di Meursault: è l’autore stesso, nei suoi taccuini e nelle interviste, a chiarire che non voleva costruire un “mostro morale”, ma un uomo sincero, incapace di fingere. Tuttavia, pur dichiarandolo, non nega che il lettore possa vedere altro, qualcosa che sfugge anche a lui.

In Italia, Alberto Moravia ha fatto dell’autointerpretazione una parte integrante della sua identità letteraria. Parlava spesso dei propri romanzi come se fossero esperimenti morali, analisi di un malessere collettivo. Nei suoi saggi e nelle interviste spiegava Gli indifferenti come “il romanzo dell’inerzia borghese”, e La noia come la parabola della perdita del desiderio. Ma allo stesso tempo riconosceva che ogni lettore trovava nelle sue storie qualcosa di personale, qualcosa che andava oltre le intenzioni iniziali. Forse, anche lui capiva che la letteratura non si spiega mai del tutto: si racconta, si suggerisce, si offre.

Negli Stati Uniti, invece, molti scrittori hanno difeso con forza l’autonomia del testo. William Faulkner, con la sua lingua torrenziale e le sue strutture narrative frantumate, rifiutava qualsiasi interpretazione autoritativa. Diceva che la verità di una storia è “come la luce che cambia a seconda della finestra da cui la si guarda”. Ogni lettore, quindi, ha la sua porzione di luce. Lo stesso vale per Salinger, che con Il giovane Holden ha creato un mito generazionale ma non ha mai voluto spiegare il suo protagonista. Ha preferito sparire, quasi letteralmente, lasciando che fosse Holden Caulfield — e ciascuno di noi — a parlare.

Forse la verità sta proprio nel mezzo, in quella zona di dialogo dove autore e lettore si incontrano senza sopraffarsi. Uno scrittore che racconta la propria opera non toglie senso al testo, se lo fa con misura e sincerità. Può anzi arricchire la lettura, offrendo contesto, visione, intenzione. Ma se pretende di dare “la spiegazione giusta”, finisce per ridurre l’opera a un commento, e il lettore a uno scolaro.

Calvino lo sapeva bene, quando diceva che la leggerezza non è superficialità, ma “planare sulle cose dall’alto, senza macigni sul cuore”. E lo stesso si potrebbe dire del rapporto tra autore e lettore: serve leggerezza. Serve fiducia.

Forse, in fondo, è una questione di stile più che di principio. Ci sono autori che sentono il bisogno di parlare, e altri che sanno tacere. Pavese, per esempio, nei suoi diari spiegava le ragioni più intime del suo scrivere — eppure nei romanzi lasciava tutto sospeso, come un filo d’inquietudine che non si risolve mai. Al contrario, Primo Levi ha saputo unire chiarezza e pudore: spiegava per testimoniare, ma non interpretava per chiudere. Nei suoi libri, la parola è limpida, ma lascia aperta la riflessione morale.

Così, la questione non è tanto se sia giusto o sbagliato spiegare la propria opera, quanto capire come farlo. Lo scrittore che racconta la propria storia con umiltà, senza dettare verità, compie un atto di apertura; quello che la difende dal lettore, come se gli appartenesse ancora, rischia di spegnere la libertà del testo.

Scrivere è un gesto di comunicazione, ma anche di fiducia. Lo scrittore consegna la propria storia e poi, volente o nolente, la perde. Da quel momento il libro comincia a vivere in chi lo legge. Parlare di sé, allora, può essere un modo per salutare la propria opera — come si accompagna un figlio alla soglia di casa — ma poi bisogna lasciarla andare, accettando che diventi altro.

Ecco perché, alla fine, non c’è risposta unica alla domanda iniziale. Ogni autore decide quanto tacere e quanto dire, quanto custodire e quanto condividere. L’importante, credo, è non dimenticare che dietro ogni libro ci sono due verità: quella di chi scrive e quella di chi legge. E nessuna delle due può esistere senza l’altra.

 

© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata

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