Riflessioni su Martin Chuzzlewit di Charles Dickens
Qualche giorno fa ho intrapreso la lettura di Martin Chuzzlewit, un romanzo di Dickens pubblicato da Adelphi, di ben 1285 pagine: forse l’opera più corposa nella quale mi sia imbattuto finora di questo scrittore. Posso ormai fregiarmi della lettura di David Copperfield, Oliver Twist, Grandi speranze, Canto di Natale, La bottega dell’antiquario e Il Circolo Pickwick — per tanto, questo è il mio settimo romanzo del famoso scrittore inglese, il più celebre e celebrato del periodo vittoriano, definito da Stephen King “lo Shakespeare del romanzo”.
Nel frattempo, altre letture
attendono sulla libreria: Tempi difficili e Casa desolata (i
primi due in edizione Einaudi, Casa desolata nell’edizione azzurra di
Adelphi). Le due città invece lo possiedo in edizione bur.
Che posso ancora dire a me stesso
di Dickens? Non intendo addentrarmi in riflessioni critiche complicate, che di
solito appartengono all’accademia e a chi fa il critico di professione; ma,
poiché io stesso scrivo, alcune considerazioni le voglio fare.
La prima è che — oltre a essere
piacevole leggere e scrivere d’inverno, se il sole non batte troppo sulla
tastiera del computer — scrivere riscalda anche un pochino. Ma, più seriamente,
direi che questo romanzo, pubblicato a puntate tra il 1842 e il 1844 come
consuetudine per Dickens, era accompagnato dalle illustrazioni di Phiz,
considerate fondamentali dallo stesso autore: quasi un prolungamento
dell’esistenza dei suoi personaggi, e certamente un notevole arricchimento
dell’immaginazione del lettore, oltre che una guida visiva alla narrazione.
Dickens è un grande scrittore e un
grande oratore — anzi, forse prima ancora un oratore e poi uno scrittore. Nella
meticolosità del suo linguaggio ci si può facilmente perdere: utilizza periodi
molto ampi, ricchi di subordinate concessive, causali, relative, che danno vita
a una scrittura articolata, musicale e densa di ritmo.
La prosa di Dickens ha sempre dato
l’idea di qualcosa di magistralmente costruito e al tempo stesso pericolante,
come un edificio perfetto ma in bilico. In Martin Chuzzlewit, in
particolare, questa sensazione raggiunge il virtuosismo più completo: è uno dei
romanzi in cui la sua scrittura tocca i limiti estremi della sua maestria. Solo
Dickens, infatti, può permettersi certe immagini, certe deformazioni espressive
e, in ultima analisi, certi personaggi come Mr. Pecksniff.
Dal punto di vista delle
atmosfere, Martin Chuzzlewit è vicino a quelle de Il Circolo Pickwick:
ci troviamo ancora nel territorio della narrativa di costume, più che della
pura satira sociale. Troppo spesso, e in maniera un po’ semplicistica, si
definisce Dickens un autore “satirico”; in realtà, in molti suoi romanzi
prevale piuttosto l’elemento del costume, inteso come il racconto realistico e
popolare delle abitudini, dei tipi umani e delle manie di un’epoca. È una
narrativa che vive della forza della commedia e dell’ethos, più che del pathos:
un mondo in cui il senso morale e collettivo prevale sull’enfasi drammatica.
Mr. Pecksniff rappresenta
perfettamente il tipo del borghese — un discendente, per
certi versi, del bonario protagonista del Circolo Pickwick, ma con una
sfumatura di autocompiacimento che lo rende più realistico e umano. Dickens, tuttavia,
non giudica mai con durezza: tratta i suoi personaggi con un affetto profondo,
quasi paterno. Ha ragione il critico McKernan, che osserva come i personaggi
dickensiani non dialoghino realmente tra loro, ma piuttosto soliloquino:
parlano con se stessi, rivelando una sincerità totale, spesso ingenua, che li
rende indimenticabili.
Ricordo di avere letto,
nell’introduzione alla Penguin Edition di David Copperfield,
l’osservazione secondo cui Dickens tende ad animare ciascun personaggio con una
virtù morale distintiva — una qualità che diventa il suo asse psicologico.
Tuttavia, attorno a questa virtù, l’autore costruisce sempre un gioco di
contraddizioni, dubbi e debolezze: è proprio in questo equilibrio tra
idealizzazione e imperfezione che nasce la verità dei suoi ritratti.
È necessario dire, infine, che
Dickens è un umorista raffinato, un osservatore ironico e costante della
realtà. In lui non esiste quasi una frase che non contenga un sottotesto
ironico, e spesso il lettore può scegliere solo tra l’ironico e il molto ironico,
fino al limite del sarcasmo e dunque della satira. Tuttavia, come osservava
Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura, Dickens riesce a creare
immagini così vive e plastiche da oltrepassare la pura caricatura. Le sue
descrizioni possiedono una forza visiva e una ricchezza narrativa che solo il
cinema, molto tempo dopo, sarà in grado di eguagliare in potenza espressiva e
in capacità di evocazione fiabesca.
© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata
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