giovedì 27 novembre 2025

Riflessioni su Martin Chuzzlewit di Charles Dickens

C
on la sua lingua musicale e la complessità dei suoi periodi, Dickens appare in Martin Chuzzlewit più che mai architetto del romanzo moderno. L’opera, tra le più ampie e mature, unisce l’ironia alla profondità morale e restituisce una galleria di tipi umani che sfiorano la caricatura senza mai cadervi. Mr. Pecksniff incarna il borghese vanitoso e compiacente, specchio di un’Inghilterra viva e contraddittoria. Come sempre, l’autore guarda ai suoi personaggi con affetto e ironia, trasformando la commedia di costume in un’indagine dell’animo. La forza plastica delle descrizioni e l’umorismo sottile confermano Dickens come un osservatore insuperato della natura umana e del suo eterno teatro.

 


Qualche giorno fa ho intrapreso la lettura di Martin Chuzzlewit, un romanzo di Dickens pubblicato da Adelphi, di ben 1285 pagine: forse l’opera più corposa nella quale mi sia imbattuto finora di questo scrittore. Posso ormai fregiarmi della lettura di David Copperfield, Oliver Twist, Grandi speranze, Canto di Natale, La bottega dell’antiquario e Il Circolo Pickwick — per tanto, questo è il mio settimo romanzo del famoso scrittore inglese, il più celebre e celebrato del periodo vittoriano, definito da Stephen King “lo Shakespeare del romanzo”.

Nel frattempo, altre letture attendono sulla libreria: Tempi difficili e Casa desolata (i primi due in edizione Einaudi, Casa desolata nell’edizione azzurra di Adelphi). Le due città invece lo possiedo in edizione bur.

Che posso ancora dire a me stesso di Dickens? Non intendo addentrarmi in riflessioni critiche complicate, che di solito appartengono all’accademia e a chi fa il critico di professione; ma, poiché io stesso scrivo, alcune considerazioni le voglio fare.

La prima è che — oltre a essere piacevole leggere e scrivere d’inverno, se il sole non batte troppo sulla tastiera del computer — scrivere riscalda anche un pochino. Ma, più seriamente, direi che questo romanzo, pubblicato a puntate tra il 1842 e il 1844 come consuetudine per Dickens, era accompagnato dalle illustrazioni di Phiz, considerate fondamentali dallo stesso autore: quasi un prolungamento dell’esistenza dei suoi personaggi, e certamente un notevole arricchimento dell’immaginazione del lettore, oltre che una guida visiva alla narrazione.

Dickens è un grande scrittore e un grande oratore — anzi, forse prima ancora un oratore e poi uno scrittore. Nella meticolosità del suo linguaggio ci si può facilmente perdere: utilizza periodi molto ampi, ricchi di subordinate concessive, causali, relative, che danno vita a una scrittura articolata, musicale e densa di ritmo.

La prosa di Dickens ha sempre dato l’idea di qualcosa di magistralmente costruito e al tempo stesso pericolante, come un edificio perfetto ma in bilico. In Martin Chuzzlewit, in particolare, questa sensazione raggiunge il virtuosismo più completo: è uno dei romanzi in cui la sua scrittura tocca i limiti estremi della sua maestria. Solo Dickens, infatti, può permettersi certe immagini, certe deformazioni espressive e, in ultima analisi, certi personaggi come Mr. Pecksniff.

Dal punto di vista delle atmosfere, Martin Chuzzlewit è vicino a quelle de Il Circolo Pickwick: ci troviamo ancora nel territorio della narrativa di costume, più che della pura satira sociale. Troppo spesso, e in maniera un po’ semplicistica, si definisce Dickens un autore “satirico”; in realtà, in molti suoi romanzi prevale piuttosto l’elemento del costume, inteso come il racconto realistico e popolare delle abitudini, dei tipi umani e delle manie di un’epoca. È una narrativa che vive della forza della commedia e dell’ethos, più che del pathos: un mondo in cui il senso morale e collettivo prevale sull’enfasi drammatica.

Mr. Pecksniff rappresenta perfettamente il tipo del borghese  — un discendente, per certi versi, del bonario protagonista del Circolo Pickwick, ma con una sfumatura di autocompiacimento che lo rende più realistico e umano. Dickens, tuttavia, non giudica mai con durezza: tratta i suoi personaggi con un affetto profondo, quasi paterno. Ha ragione il critico McKernan, che osserva come i personaggi dickensiani non dialoghino realmente tra loro, ma piuttosto soliloquino: parlano con se stessi, rivelando una sincerità totale, spesso ingenua, che li rende indimenticabili.

Ricordo di avere letto, nell’introduzione alla Penguin Edition di David Copperfield, l’osservazione secondo cui Dickens tende ad animare ciascun personaggio con una virtù morale distintiva — una qualità che diventa il suo asse psicologico. Tuttavia, attorno a questa virtù, l’autore costruisce sempre un gioco di contraddizioni, dubbi e debolezze: è proprio in questo equilibrio tra idealizzazione e imperfezione che nasce la verità dei suoi ritratti.

È necessario dire, infine, che Dickens è un umorista raffinato, un osservatore ironico e costante della realtà. In lui non esiste quasi una frase che non contenga un sottotesto ironico, e spesso il lettore può scegliere solo tra l’ironico e il molto ironico, fino al limite del sarcasmo e dunque della satira. Tuttavia, come osservava Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura, Dickens riesce a creare immagini così vive e plastiche da oltrepassare la pura caricatura. Le sue descrizioni possiedono una forza visiva e una ricchezza narrativa che solo il cinema, molto tempo dopo, sarà in grado di eguagliare in potenza espressiva e in capacità di evocazione fiabesca.

© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata

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