La fiaba come promessa di verità: tra Calvino, Dickens e il sogno che ci educa a vivere
C’è qualcosa nella fiaba che non smette di tornare, come un suono che si insinua nella memoria e non si lascia zittire. Non è solo nostalgia, non è soltanto il ricordo di un’infanzia piena di immagini, ma qualcosa di più profondo, quasi un codice nascosto che continua a parlare alla parte più segreta di noi. Mi accorgo che, ogni volta che torno a leggere Calvino o Dickens, ritrovo lo stesso respiro: quello della fiaba. Non la favola, che conclude sempre con una morale chiara e tagliente, ma la fiaba, che resta aperta, che non spiega ma accompagna. La favola dice cosa è giusto, la fiaba mostra come ci si arriva, e questa differenza, apparentemente piccola, è in realtà un abisso.
La fiaba, nella sua essenza, è un viaggio. Non descrive, non argomenta, non persuade: accade. È la narrazione di un movimento, di un attraversamento, di un cambiamento. E in questo suo ritmo antico, in questo suo modo di mettere alla prova il mondo e chi lo abita, si nasconde la più grande verità che un racconto possa trasmettere: che la vita è una prova continua. Calvino, con la sua limpidezza luminosa, lo aveva detto meglio di chiunque altro: “Le fiabe sono vere”. Lo sono non perché parlino di draghi, re o principesse, ma perché dicono come si cresce, come si cade, come si resiste. Raccontano la vita com’è davvero, non la vita che si vorrebbe. Preparano il bambino, ma anche l’adulto che quel bambino non ha mai smesso di essere.
Mi capita di pensare che la fiaba sia la prima forma di filosofia che incontriamo, ma anche la più duratura. È il racconto del destino e del libero arbitrio, dell’ingiustizia e della riparazione, della solitudine e dell’incontro. Non esistono fiabe felici, nemmeno quelle che finiscono bene. Ogni lieto fine è un punto d’arrivo faticoso, mai gratuito. Ogni gesto di bontà è una conquista. È per questo che, leggendo Dickens, sento lo stesso sapore morale delle fiabe: quella dolcezza aspra che nasce dalla fatica del bene.
Dickens non ha scritto fiabe, eppure il suo mondo ne è intriso. Ogni suo romanzo, da Oliver Twist a David Copperfield, da A Christmas Carol a Great Expectations, è un percorso fiabesco travestito da racconto realistico. Le sue Londra, con i fumi delle fabbriche e le strade fangose, sono foreste; i suoi orfani, i suoi mendicanti, sono eroi senza spada, che avanzano tra mostri fatti di burocrazia, denaro, indifferenza. La sua è una fiaba adulta, popolata di dolori reali ma riscattati dalla luce dell’immaginazione. C’è sempre una speranza, un gesto di umanità che salva, un piccolo miracolo che non ha nulla di soprannaturale ma tutto di umano. E questo, a ben vedere, è lo stesso principio che regge la fiaba popolare: la fede, forse ingenua ma tenace, che il bene esista e che, se pure tarda, non sia vano.
Il bambino che ascolta una fiaba e il lettore che si immerge in Dickens compiono lo stesso atto di fiducia. Entrano in un mondo dove le cose hanno ancora un senso, dove il dolore non è fine a sé stesso, dove l’amore e la pietà non sono debolezze ma forze sovrumane. È curioso come la fiaba e il romanzo dickensiano condividano la stessa architettura: un inizio di mancanza, una serie di prove, un aiuto imprevisto, una rinascita. Ma la differenza è che Dickens dilata la fiaba, la riempie di tempo, di luoghi, di nomi. Dove la fiaba si limita al simbolo, lui mette carne e respiro. Ci mostra la miseria vera, le mani che tremano, i corpi che faticano. Eppure, anche lì, in mezzo alla realtà, la fiaba continua a battere come un cuore segreto.
Non c’è bisogno della magia per scrivere una fiaba: basta la pietà. Dickens lo sapeva. Nelle sue pagine, il prodigio nasce dal perdono, dalla generosità, dalla possibilità che anche il più corrotto possa cambiare. È una forma di grazia che si offre ai personaggi e al lettore insieme. In questo senso, Dickens scrive come un narratore antico: non per descrivere il mondo, ma per salvarlo. E la salvezza, nella letteratura, passa quasi sempre dal racconto.
Calvino lo aveva intuito osservando le fiabe popolari italiane: “sono un catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna”. Le fiabe non parlano mai solo di un personaggio, ma dell’umanità intera. Ogni eroe che parte, ogni principessa che aspetta, ogni prova superata sono figure universali del vivere. Ed è per questo che, anche quando non ce ne accorgiamo, continuiamo a raccontare fiabe. Le riconosciamo nei romanzi, nei film, persino nei giornali, perché abbiamo bisogno di storie che restituiscano un ordine alle cose. Non importa se l’ordine è fragile, provvisorio o persino illusorio: è ciò che ci tiene vivi.
C’è un momento, in ogni fiaba, in cui il protagonista attraversa il buio. È la selva di Dante, l’abisso che precede la luce. Lì si misura con la perdita, con la paura, con il dubbio. Nessuna fiaba si sottrae a questo passaggio. È lì che il bambino impara che la paura esiste ma si può attraversare, e l’adulto impara che l’errore non è la fine. Dickens ripete questo rito in ogni romanzo: il buio che precede il risveglio, la miseria che prepara alla redenzione. A Christmas Carol è la fiaba più esplicita in questo senso: la discesa agli inferi di Scrooge è un viaggio interiore che ripercorre il ciclo iniziatico del racconto popolare. Il male non viene sconfitto, viene compreso. E la comprensione diventa salvezza.
Ciò che mi affascina della fiaba, e di ciò che di fiabesco rimane nei grandi romanzi, è che parla di noi nel modo più diretto possibile. Non pretende di essere realistica, ma lo è più del realismo. Perché coglie non la superficie dei gesti, ma le radici del desiderio. Il bambino che vuole un regno non sogna il potere, sogna di essere riconosciuto. L’adulto che legge Dickens non cerca una lezione morale, cerca consolazione. Entrambi, in fondo, vogliono sapere che la bontà, anche minima, non è inutile. E la fiaba glielo dice. Lo dice senza prove, senza dimostrazioni, ma con la forza di un archetipo.
Forse è questo il segreto: la fiaba tocca l’inconscio collettivo, la zona dove vivono i sogni e le paure. E Dickens, con la sua immaginazione traboccante, è riuscito a tradurla in una lingua moderna. Le sue città sono foreste morali, i suoi personaggi, animali simbolici. Non c’è niente di più fiabesco della sua compassione per i deboli, del suo odio per l’arroganza, della sua fede nella possibilità del riscatto. Ogni volta che lo leggo, ho la sensazione che stia raccontando ciò che ancora non sappiamo dire di noi stessi.
E mi domando: non è questo, in fondo, il potere della fiaba? Rivelare ciò che non si osa confessare apertamente? Mostrare la nostra fame di giustizia, il nostro bisogno di riconciliazione, la nostra paura della solitudine? Le fiabe non sono mai state soltanto racconti per l’infanzia; sono il modo più antico e più puro con cui l’uomo ha saputo trasformare il dolore in bellezza. Dickens lo fa con la penna, Calvino con la leggerezza. Entrambi, ciascuno a suo modo, ci insegnano che raccontare è un modo per guarire.
Se provo a guardare oltre la pagina, mi accorgo che la fiaba non è un genere chiuso, ma una forma di pensiero. Esiste anche nei gesti quotidiani, nei sogni, nei ricordi. Quando qualcuno cade e si rialza, quando il male sembra vincere e poi si incrina, quando un piccolo atto d’amore cambia tutto: quella è una fiaba che accade nella realtà. Forse è per questo che la letteratura non smette di attingervi. Anche gli autori più disincantati, persino quelli che dichiarano di non credere più alle storie, finiscono per scriverne una.
Scrivere di fiabe significa anche interrogarsi sul perché raccontiamo. Forse per ricordarci che non siamo soli. Forse per lasciare agli altri un sentiero, una luce nel bosco. E quando Calvino dice che la fiaba prepara il bambino alla vita, io credo che voglia dire anche questo: che la fiaba ci allena a sopportare l’imperfezione del mondo, ma senza rinunciare alla sua possibilità di cambiamento. Ci insegna a non smettere di credere nella trasformazione.
C’è qualcosa di profondamente morale nella fiaba, ma non nel senso dell’insegnamento. È una moralità che nasce dall’esperienza. Si impara soffrendo, si capisce amando, si cresce perdendo. Ed è per questo che le fiabe, anche nella loro semplicità, hanno una potenza narrativa che pochi altri generi possiedono. Esse non si limitano a descrivere la realtà: la trasfigurano. E proprio in questo gesto di trasfigurazione, in questa capacità di dare forma e senso al caos, la fiaba tocca la grandezza dell’arte.
Ecco perché Dickens, pur scrivendo romanzi, resta vicino alla fiaba: perché la sua scrittura non si limita a osservare il mondo, ma lo rifonda. Ci restituisce la possibilità di credere che l’uomo, anche nel fango, resti capace di luce. E ogni volta che chiudo un suo libro, ho la sensazione di aver attraversato la stessa soglia che attraversavo da bambino alla fine di una fiaba: un misto di gratitudine e malinconia, di consapevolezza e speranza.
Forse, alla fine, le fiabe non servono tanto a insegnarci come funziona la vita, quanto a ricordarci che vale la pena viverla. Ci mostrano che la gioia è fragile, che il male è insistente, ma anche che l’anima umana, nella sua tenacia, sa ancora stupirsi. In questo, Dickens e Calvino si incontrano: entrambi credono che il racconto non sia una fuga, ma un ritorno. Un ritorno a ciò che conta davvero — alla bontà, alla pietà, al sogno che ci tiene svegli.
E se oggi continuiamo a cercare fiabe, anche in romanzi, film o serie televisive, è perché abbiamo ancora bisogno di credere che la realtà, per quanto crudele, possa essere raccontata in modo da diventare sopportabile. Che dentro la parola, dentro la storia, ci sia ancora la possibilità di una rinascita. Le fiabe, quelle vere, non finiscono mai con “vissero felici e contenti”. Finiscono con un silenzio, con una pausa, con un respiro che dice: “Adesso tocca a te”.
Ecco, forse questo è ciò che le fiabe fanno davvero: ci preparano non alla vita com’è, ma a quella che potremmo ancora costruire.
© Daniel Crusoe — Riproduzione riservata
Etichette: Narrativa

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